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Schermo delle mie brame


“Che strano chiamarsi Federico”

di Alex Donadio

«Pour moi, toutes les citations – qu’elles soient picturales, musicales, littéraires - appartiennent à l’humanité. Je suis simplement celui qui met en relation Raymond Chandler et Fédor Dostoïevski dans un restaurant, un jour, avec des petits acteurs et des grands acteurs. C'est tout.»

J-L. Godard

 

“Schermo delle mie brame” non è una rubrica che recensisce l’ultimo film uscito nei circuiti nazionali, non è nemmeno una rubrica sui film in generale, ma è una rubrica sul cinema. Su tutto il cinema. E allora questo mese parliamo di un film che è stato l’ultimo di un grande regista italiano: Ettore Scola, che, nonostante la fama, già in vita era un po’ troppo messo, vorrei dire, ‘nel gruppo’. Nei giovani, oggi, è ‘passato’ (già) nel cinema di una volta.

 

Non esiste il cinema di una volta, esiste il cinema, e per capirlo bisogna conoscerlo. Tutto. La citazione di Godard che ho messo all’inizio, nella sua ‘semplicità’ (ci) avvicina, vorrei dire, alla necessità del fare cinema.

L’ultimo film che Ettore Scola ha diretto è stato un omaggio all’amico della vita, Federico Fellini. Il titolo, una conseguenza: “Che strano chiamarsi Federico”. Veniva alla luce nel 2013, tre anni dopo Scola lasciava questo mondo. E portava via con sé un vissuto immenso, irripetibile. 

 

L’ultima volta che l’ho ri-visto, il film, avevo le lacrime agli occhi quando sono uscito dal cinema, era al Le Nouveau Latina, un Cinéma d'Essai nel Marais, in quella rue du Temple a Parigi dove abitavo. Era tradotto con l’arbitrario 'Frederico' (piccola polemica grammaticale, capisco che Federico in francese si traduce in Frédéric ma allora bisognava non italianizzare con quella “o” finale che scompiglia il nome e non ‘nomina’ nessuno). Comunque il titolo era questo: “Qu’il est étrange de s’appeler Frederico”. E non era un refuso.

 

Ettore Scola è stato un grande regista. E la sua carriera e le sue opere lo hanno sempre dimostrato, ma in questo suo ultimo film non solo porge l’omaggio più amorevole all’amico, ma realizza il film più ‘felliniano’ che io abbia mai visto, con buona pace di Fellini che diceva che lui ormai era diventato un ‘aggettivo’, appunto, e non sapeva cosa volesse significare.

Scola (quasi) annulla sé stesso dando il meglio di sé stesso, in quanto ci restituisce la narrazione che apparteneva a Fellini, creando, ‘inventando’ un linguaggio - in modo molto personale (ed è qui lo straordinario) - oltre a situazioni filmiche che sarebbero potute uscire dalla fantasia di Fellini stesso. Ci vuole molta intelligenza, molta capacità, nel fare questo con un gigante come Fellini, e ci vuole molto amore, quell’amicizia che (a volte) è fatta “della stessa sostanza” dell’amore. Ma si conoscevano fin da ragazzi e avevano condiviso lavoro e vita, assiduamente.

 

Il film inizia con l’arrivo di Fellini da Rimini a Roma nel 1939, da quando era un giovane disegnatore alla redazione del ‘Marc’Aurelio’ fino al suo quinto Oscar nel 1993. E si chiude con i suoi funerali. Anche se, a sorpresa, in post-filmico diciamo, si apre quel “raggio di sole” (un’ “invenzione” di Scola che sarebbe potuta venire in mente a un Benigni-Pinocchio) che - come raccontava Fellini - i produttori gli chiedevano sempre per chiudere i film. E che lui, stupito, non capiva, ma… ‘ci provava’. Oltre questo ‘post-film’, Scola ci regala, come in un bis, una splendida e vorticosa carrellata, sapiente ed enciclopedica, di tante sequenze dei tanti film del suo grande amico.

 

Un narratore racconta (molto bravo e molto ben diretto l’attore) entrando e uscendo dalla storia che si svolge sotto ai nostri occhi. Scola usa con grande rispetto il famoso “Teatro 5” di Cinecittà (il luogo per eccellenza di Fellini, la sua vera casa, come diceva) e con gran competenza gli enormi velari trasparenti con le scenografie dipinte, dove il vero e il falso si compensano, come si compensavano le ‘invenzioni’, le ciance, le tante trappole che lanciava quel “grande Pinocchio che non è mai diventato un bambino perbene” come chiude il film, il più grande bugiardo del cinema italiano, come disse Sordi in un intervista, “ma c’ha ‘na capoccia così!” poi aggiunse col sorriso.

 

Il materiale di repertorio è dosato, scelto con un’attenzione estrema da Scola (non poteva essere altrimenti), nulla di ridondante e il suo director's cut è impeccabile. Anche questo lavoro, questa ‘misura’ da tenere è cosa molto difficile, perché per un’indagine su un artista così prolifico e visionario come Fellini tagliare potrebbe essere come tradire. Ma Scola riesce a tagliare senza tradire, a farci vedere senza dilungarsi. E’ un Amico abbiamo detto. Oltre che un grande regista. E il film scorre veloce con tutti i suoi attori, Sordi, i due Casanova, quello ‘superstar’ di Donald Sutherland di Fellini e quello invecchiato e pieno d’acciacchi, umano e superbo, di Scola nel suo meraviglioso “La Nuit de Varennes” (da noi “Il mondo nuovo”) impersonato da Mastroianni. Ci sono le donne che Federico ha amato, leggere, ci sono gli amici veri, c’è la Saraghina, Marcello, Giulietta, Anita, Vittorio, Ugo, Sergio, e “La dolce vita” e “Amarcord”, “E la nave va”. E c’è tanto Fellini che guida la sua automobile in quei consueti, notturni, singolari, viaggi romani assieme a Ettore Scola (la coppia è impersonata da due attori immersi nella sapiente penombra del chiaroscuro di Luciano Tovoli). Accompagna l'ultimo vagabondaggio notturno in auto, dove i due amici si scambiavano in grande complicità la loro frequentazione amicale, quella sequenza memorabile dei motociclisti (meraviglioso omaggio a Fellini, alla sua Roma, al suo film omonimo) che solcano le strade e le piazze della “città eterna” e lambiscono monumenti altrettanto ‘eterni’. Un'ulteriore, brillante invenzione… noi li vediamo, un po’ decolorati, dall’interno dai finestrini dell’auto come a dire che il tempo non esiste, il tempo è quel meraviglioso “trasparente” (perché è lì che si gioca il grande cinema, lì che si sono sempre accese le ‘meraviglie’ degli sfondi che scorrevano sui personaggi), eterno trucco della scenografia del cinema! Quel gruppo di centauri deve aver sempre accompagnato la fantasia di Federico. Come l’hanno accompagnato per tutto il film Ruggero Maccari, Age e Scarpelli, Steno, Giovanni Mosca, assieme a tanti ricordi e tanta memoria di lui.

 

“Che strano chiamarsi Federico” è un film che merita di essere visto (o rivisto), un film dove Scola con grande intelligenza ha cercato di non premere troppo col tasto della nostalgia. Cosa difficile per chi ha vissuto quei tempi e quel cinema.

 

23 Maggio 2017

 


ELLE

di Alex Donadio

Verhoeven. Il quarto uomo, film molto raffinato con una ambigua, un po’ androgina ed estremamente erotica Renée Soutendijk che nel film si immerge nel rosso degli abiti e del sangue, poi RoboCop, credo il suo primo film interamente tutto americano, segue il thriller erotico Basic Instinct con Sharon Stone,  troppo surdimensionato, ma si sa, la visione dell’“origine du monde” fa sempre scandalo e audience, anche se la ripresa della scena è valsa al regista un paio di schiaffi, dati dalla Stone, nel corso della prima proiezione perché non era concordato che le sue intimità risultassero così evidenti, anzi Verhoeven aveva promesso che sarebbero state nella penombra. Segue Showgirls, dall’erotismo patinato e tutto luccicoso di paillettes, Black Book ambientato nel periodo della seconda guerra mondiale, e poi Elle.

Lei. Isabelle Huppert. Che non si discute ormai. Brava. E non da oggi.

La si potrebbe guardare per ore a riempire lo schermo, il film è lei, tutto giocato sul corpo, sugli sguardi, sul suo muoversi con un fare aristocratico e distaccato, comprese le scene di sesso violento.

Eppure il film non mi convince completamente.

Interessante, certo, ma dopo cinque minuti l’entrata in scena di un certo personaggio già sapevo che era lui il ‘cattivo’.

Non è gravissimo, ma… per un thriller non è nemmeno il massimo, come si dice. Contribuisce ad un giudizio non del tutto positivo anche un cattivo doppiaggio, cosa piuttosto strana considerato che noi abbiamo i migliori doppiatori del mondo, ho visto degli spezzoni in francese ed è tutt’altra cosa, la Huppert poi è perfetta.

Il film è comunque da vedere, è molto ben girato, la storia è intrigante, le psicologie interessanti. 

 

25 Aprile 2017

 


LALALAND e il Sogno Americano

di Alex Donadio

 

L.A. - LA LA land - il territorio di Los Angeles. Sulle colline giganteggia dal 1923 la scritta HOLLYWOOD.  

È una storia banale LALALAND, parla di amore. Anche se parlare di amore è parlare degli uomini e parlare degli uomini non è affatto banale. Ma questo film, in una certa tradizione americana, parla di amore per parlare del desiderio della trasformazione sociale, pur se quest’ultima edulcorata dalle ‘necessità’ artistiche. Potrebbe essere un film che tocca le corde del mélo, ma non lo è. È il Sogno Americano”! E Damien Chazelle, giovane regista di talento, ma anche musicista, classe 1985, racconta questa storia col registro del music-hall.

Perlomeno da Lubitsch in poi, nel cinema hollywoodiano, il film musicale ha conquistato intere generazioni, diventando, assieme al western, il genere cinematografico americano per eccellenza. Ed in alcuni registi quasi un cammino da farsi perlomeno una volta nella vita, un po’ come in Europa succedeva per Santiago di Compostela. Ci ricordiamo un Al Jolson impegnato nel tentativo di diventare un cantante di successo, ci ricordiamo di Mamoulian, Minnelli, Stanley Donen, Gene Kelly. Era la musical comedy, nata oltreoceano, ma che faceva ‘sognare’ anche l’Europa, dove l’omaggio più interessante è stato, senza dubbio, quello di Jacques Demy (“Les Parapluies de Cherbourg”, “Les Demoiselles de Rochefort” per citare due suoi film molto noti) realizzato anche con il sodalizio musicale di Michel Legrand, il cui stile e toni, in questo film di Chazelle, come in un rimbalzo tra oceani, sono ripresi con altrettanto identico omaggio e cinefilo affetto.

Ma nulla è a caso, il music hall non è solo una forma di intrattenimento, piuttosto è una visione del mondo, una ‘filosofia’ di vita che, come tale, ben si coniuga a quell’american way of life che dal New Deal in poi ha contaminato intere generazioni di statunitensi, per le quali il ‘sogno’ (tutto americano) è il motore della propria vita.

Chazelle ha detto che i personaggi del suo film sono incentrati “sulla voglia di diventare un artista e conciliare i propri sogni con le quotidiane necessità umane” e ancora “c'è qualcosa di poetico in L.A. così popolata di sogni irrealizzabili”.

Di fatto il più grande flusso di immigrazione del mondo non può non portare in sé il ‘sogno’, quell’American Dream, coronato o meno, che è la filosofia degli Stati Uniti d’America fin dalle prime generazioni dei coloni europei, lì arrivati con grandi sforzi e sacrifici, e poi trasmesso alle generazioni successive. Inizia con la ‘corsa all'oro’ di metà ottocento, verso l’Ovest, verso le Montagne Rocciose, e poi nel corso del tempo, nelle successive ondate di immigrazione cambierà sempre registro.

Se il Sogno Americano è la storia dell’America, come tale è (anche) la storia del cinema americano, di tutto il cinema americano, dalla “Febbre dell’oro” di Chaplin, alla ‘frontiera’ raccontata mirabilmente in molti film Western, uno per tutti il mitico “Johnny Guitar” dove una volitiva Joan Craword–Vienna (guarda caso si chiama come un altro ‘sogno’, quella città-mito alternativo della Mitteleuropa, quella Vienna che sarebbe potuta divenire l’altra ‘america’) gestisce in modo pragmatico e lungimirante, un saloon-casa da gioco perché sa che presto quel posto selvaggio dell'Arizona sarà attraversato dal treno, e quindi sicuramente attorno alla ferrovia si costruirà una città. Vienna porta in sé due sogni: quello dell’imprenditoria legata al progresso tecnologico e quello dell’amore, l’amore appena reincontrato che, alla fine del film, coronerà col suo Johnny, mitico ex pistolero che ha deposto le pistole ed è accompagnato ormai solo dalla sua chitarra. Anche se forzatamente prima della fine del film dovrà ancora dare un’ultima prova della sua indiscussa abilità. Ma qui a ‘sognare’ l’Europa di Vienna era Nicholas Ray, il regista cult, l’irregolare americano di famiglia per metà tedesca e metà norvegese.  

Sogni, film e film musicali, Frank Capra con “L'eterna illusione”; Jerome Kern che col suo rivoluzionario “Showboat” parla di problemi razziali, Jerome Robbins e Robert Wise in “West side story” raccontano il sogno di un amore (contrastato) di due adolescenti che appartengono a due etnie diverse, Tim Curry – Frank-N-Furter in “The Rocky horror picture show” ‘sogna’ per un suo ideale erotico e d’amore; Altman nel suo “Nashville” fa ‘sognare’ chi si ciba di musica, spesso sono anche sogni di un successo naufragato; Milos Forman in “Hair” ci parla del ‘sogno’ infranto di una generazione, e poi ancora altri sogni: “Saranno Famosi”, “Chorus Line”, “Moulin Rouge” e molti, molti altri. “Midnight Cowboy” parla del Sogno Americano”.

Anche la letteratura americana racconta spesso del ‘sogno’, Arthur Miller nella sua commedia “Morte di un commesso viaggiatore” vede il protagonista Willy Loman lottare contro l’evidenza che il suo Sogno Americano è inattuabile; Lennie, uno dei due protagonisti di “Uomini e topi” di Steinbeck, sogna di potersi comprare, un giorno, un piccolo pezzo di terra e condurre una vita finalmente serena; “Il grande Gatsby” parla di sogni ed il drammaturgo Edward Albee intitola il suo atto unico “Il sogno americano”.

Anche se Gore Vidal, con grande ironia, sberleffa l’american way of life nel suo “Duluth. Tutta l'America in una città”, il Sogno Americano non svanisce, cambia status e si trasforma quando diventa politico: “I still have a dream. It is a dream deeply rooted in the American Dream”. È un uomo che ha letto Sartre, Heidegger ed il teologo tedesco-americano esistenzialista Paul Tillich, ma ha un ‘sogno’ anche lui, è quello per l’uguaglianza dei diritti civili, quest’uomo è Martin Luther King. Ma anche il suo ‘sogno’ si è infranto. Solo in un film come “Pretty Woman” il finale coincide con la ‘favola bella’ ed il ‘sogno’ si corona.

Ritornando al nostro film, LALALAND è un film leggero, piacevole, e, vista anche l’età del regista, risolto con grande mestiere fin dalla prima scena, non facile da gestire, un corpo di ballo di più di 100 ballerini piazzati dalla regia e agitati dalle coreografie in una rampa di un’autostrada di Los Angeles, chiusa al traffico per due giorni (il tempo delle riprese), piena di automobili ferme. Mia e Sebastian è lì che si incontrano: lei aspirante attrice lavora come barista all’interno degli studi della Warner Bros, lui un pianista jazz sogna di aprire un suo locale. Bella la musica, girato in CinemaScope nei colori del technicolor e nello stile hollywoodiano degli anni '50, anche se la coppia Emma Stone e Ryan Gosling rientra molto più nell’immaginario di Jacques Demy (e del suo particolare musicall) che non ricordare la coppia ‘aristocratica’ formata da Fred Astaire e Ginger Rogers, o, se vogliamo restare a Hollywood, diciamo che è molto più simile a quella di “Un americano a Parigi”. Dove qui Parigi è Los Angeles, la città degli angeli, la città dove i ‘sogni’ possono essere ‘sognati’.

Non c’è l’happy end, o se c’è è molto misurato, o se c’è tocca il Sogno realizzato assieme alla sconfitta; trascorsi cinque anni i reciproci sogni si sono concretizzati, ma ognuno dei due protagonisti è andato per la propria strada. Sebastian è riuscito ad aprire un locale jazz, lei è diventata un’attrice di successo. Lo scotto lo ha pagato il loro amore, non più condiviso ormai. Adesso la vediamo moglie e madre di una bambina, ma affetto e ricordi del passato sono nell’ultimo sguardo di lei, tutti in quel suo girarsi prima di uscire dal locale jazz dove, per caso, con il marito si è recata ed assiste all’esibizione di Sebastian, come affetto e ricordi sono anche nel rimando dello sguardo complice di lui, seduto al piano che la guarda andar via. È il suo locale e lui sta suonando la loro musica, ma per lei la nuova realtà familiare, legata al (suo) ‘sogno’ di ragazza ormai realizzato, non può essere messa in discussione. Esce dal locale ed in questo modo esce di scena.

Possiamo dire che LALALAND è un Demy in salsa jazz, o in salsa Whiskey, magari Sour e bevuto in un bicchiere old fashioned, lo zucchero nel bicchiere, un po’ di succo di un limone fresco arrivato al giusto grado di maturazione ed il profumo caramellato e affumicato del bourbon whiskey.

Sì. C'era una volta Hollywood. That's Entertainment!

 

21 Marzo 2017

 


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